FRANCESCO GALIFI

IL TEMPO DEI SEGNI

by Sabrina Zannier

San Pietro di Feletto
dal 13 al 27 giugno 2015

 

Orari: dal lunedì al venerdì dalle 17.00 alle 19.00 sabato dalle 9.00 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 19.00
o su appuntamento

La mostra

by Sabrina Zannier

Il tempo dei segni, titolo della prima mostra che fa il punto sulla ricerca creativa di Francesco Galifi, sintetizza in due vocaboli la poetica di un autore che concentra nel linguaggio fotografico il sottile e spesso impercettibile limite tra vero e visionarietà.

Sempre dentro il paesaggio naturale, solo a tratti punteggiato da indizi di antropizzazione: dall’ordinamento geometrico di campi e vigneti alla skyline di una fabbrica nell’atmosfera nebbiosa, fino alla nitidezza volumetrica di una casa nel bosco. Un paesaggio di cui Galifi predilige la stagione invernale, quando la natura appare spogliata nelle forme e nei volumi, mentre i colori, ridotti a una sintetica tavolozza, mettono in scena il costante richiamo al cangiantismo tonale della terra e del cielo.

Approfondisci
Il tempo dei segni, titolo della prima mostra che fa il punto sulla ricerca creativa di Francesco Galifi, sintetizza in due vocaboli la poetica di un autore che concentra nel linguaggio fotografico il sottile e spesso impercettibile limite tra vero e visionarietà.

Sempre dentro il paesaggio naturale, solo a tratti punteggiato da indizi di antropizzazione: dall’ordinamento geometrico di campi e vigneti alla skyline di una fabbrica nell’atmosfera nebbiosa, fino alla nitidezza volumetrica di una casa nel bosco. Un paesaggio di cui Galifi predilige la stagione invernale, quando la natura appare spogliata nelle forme e nei volumi, mentre i colori, ridotti a una sintetica tavolozza, mettono in scena il costante richiamo al cangiantismo tonale della terra e del cielo.

È proprio in questa scelta che risiede la prima connotazione poetica della ricerca, ravvisabile in quell’emergenza segnica che conduce il fotografo a una sorta di ri-scrittura della realtà. Galifi fotografa brani paesaggistici in presa diretta, ma poi nelle sue immagini li restituisce per via di segni, coadiuvato dall’inverno, che quei segni ha messo a nudo, liberando il paesaggio dalle macchie del fogliame, dai fiori e dalle rigogliose distese verdi. Ciò che resta sono le linee orizzontali e diagonali della scansione paesaggistica e le verticali dei tronchi.

Su queste direttrici l’artista costruisce le sue visioni, elevando gli alberi a protagonisti inossidabili di un ambiente in perseverante mutazione; e affidando all’articolato intreccio dei rami spogli il ruolo del gesto, quasi nell’intento d’indurre una valenza espressiva in chiave panteista. Un gesto che domina e abbraccia dall’alto il panorama (03 Alpago – Marzo 2014), che lo abita come discreta presenza solitaria (05 Col Indes 1 – Gennaio 2013) oppure in modo imperativo (06 Col Indes 2 – Gennaio 2013) o, ancora, che da ludico virgulto vibra di linfa energetica (10 Campea – Febbraio 2014).
Quando la presa di visione è più ravvicinata, quando Francesco Galifi elimina la distanza fra sé e il paesaggio, per viverlo da dentro, allora il personaggio-albero diviene segno funzionale alla scansione di uno spazio fattosi pittorico. Dove l’immersione dell’artista nella natura produce un paradosso: pur essendo più prossimo al vero, l’immagine si allontana dalla fenomenologia esterna e sfiora i sentieri dell’astrazione intesa nel senso propriamente etimologico del “tirare fuori”, del “distaccare”, del separare una parte dal suo contesto. Gli alberi sono ancora riconoscibili come tali, ma non figurano più come curiosi protagonisti di una veduta perché incarnano in se stessi l’essenza del paesaggio, costruito sull’articolazione dello spazio per via delle direttrici verticali date dai tronchi e di quelle orizzontali e diagonali condotte dai rami (08 Fregona – Aprile 2015). Entra in scena anche il colore, dato però come summa di segni, che pittoricamente ammicca al puntinismo e alla sgocciolatura (04 Cansiglio 1 – Febbraio 2015 e 18 Cansiglio 3 – Febbraio 2015) introducendo nella fotografia quel dato emozionale che si contrappone alla valenza progettuale del disegno.
Una valenza che diviene imperativa nelle opere raccolte in catalogo, perché qui la fotografia è fatta “di-Segno”. Un segno che compone nell’opera la netta geometria del paesaggio, prediligendo, in uno sviluppo prospettico, la verticalità in 16 Panigai – Febbraio 2013, oppure l’orizzontalità nella scansione di duplici linee d’orizzonte, come in 01 Pian del Cansiglio – Ottobre 2010, dove la fotografia sembra composta da due immagini: una diurna, vivacizzata dai verdi dei prati, l’altra notturna, calata nelle tenebre di un cielo minaccioso rischiarato dal candore della neve sui monti. Orizzontalità che poi si astrae ancora, si toglie quindi dal contesto in 02 Susegana – Gennaio 2015, con le striature cromatiche che in un’attenta registrazione e modulazione delle luci Galifi affida all’erba restituendole la capacità di respirare su di sé anche il colore del cielo. Per via di geometrie, il fotografo approda a panorami scanditi in diagonale, come 03 Alpago – Marzo 2014, in cui anche le cromie concorrono alla scansione dei piani; o come 05 Col Indes 1 – Gennaio 2013, dove alla netta linea d’orizzonte si contrappongono zigzaganti scanalature sul manto nevoso, che sembrano segni incisi con forza da uno scultore facendo il verso ai solchi del terreno e all’azione del vento. Questo ciclo di opere di Francesco Galifi è realizzato “nel segno del paesaggio”, da un lato perché l’autore percorre l’ambiente naturale seguendone rispettosamente il passo, dall’altro perché questo “passo” lo riscrive entro un processo d’astrazione; complessivamente condotto in un percorso di andata e ritorno, di entrata e di uscita: dalla realtà alla visionarietà e viceversa. Si tratta di un processo che abbiamo già visto nella relazione fra due immagini (01 Pian del Cansiglio – Ottobre 2010 e 02 Susegana – Gennaio 2015) ma che appare in modo ancora più incisivo osservando unitamente la collina con i filari delle viti in 12 San Pietro di Feletto – Marzo 2013, dove la fenomenologia della natura antropizzata già delinea l’impianto del segno, e 11 Conegliano – Dicembre 2014, capace di traslare all’ennesima potenza la realtà in visionarietà con un’immagine che si allontana dalla resa fotografica per catapultarsi in disegno. Questo processo di astrazione dei segni del paesaggio si attiva in Galifi anche innanzi a immagini di dettagli diversi. Si ravvisa, infatti, un’indubbia relazione formale e di scansione spaziale fra i pali bianchi di sostegno alle viti (13 Conegliano – Marzo 2015) e i tronchi scuri stagliati a contrasto sul bianco saturo della neve (14 Cansiglio – Febbraio 2013), dove solo le foglie dorate sopravvissute all’inverno ci offrono l’appiglio al dato fenomenologico in un’immagine votata al minimalismo astratto.
Il segno – inteso come traccia atta a riscrivere la realtà – rappresenta dunque il primo termine della poetica di Galifi, che costantemente si misura, come enunciato nel titolo della mostra, con un altro aspetto fondamentale della sua ricerca: la dimensione temporale. Un “tempo” inteso nella declinazione meteorologica, come si è visto nella predilezione della stagione invernale; ma che nel modo di porsi del fotografo innanzi al mondo, affiora anche nell’accezione di durata, continuità, mutamento e divenire. Perché nell’epoca del digitale, dal quale attinge lo stesso Galifi, ritrarre la natura implica ancora il principio e la prassi della ricerca e dell’attesa dentro il paesaggio. A ridosso di un brano panoramico o di un dettaglio scelto e selezionato nel suo farsi per via di luce, radente o diffusa, che rifrange o invade il soggetto, a sua volta connotato formalmente e cromaticamente dall’assetto meteorologico. Come la nebbia, che tanta parte ha nella produzione dell’autore e che qui segna in modo sottile due immagini: in un caso stemperandosi in un’atmosfera ovattata, nella quale l’andamento della luce trasla il parterre nell’ossimoro di una morbida e carezzevole gelata (15 Prà dei Gai 2 – Dicembre 2013); nell’altro caso (20 Prà dei Gai 3 – Dicembre 2013) ammantando di sé la sola fascia superiore della fotografia.
Qui l’ambiente felpato dichiara la situazione meteorologica, ma traduce l’accezione di “tempo” in chiave di durata, annientando il concetto di mutamento e divenire, come del resto accade in molte altre immagini, dove i cieli asettici e bianchi appaiono vuoti come fondali neutri per affidare la scena all’articolazione del segno. Suddivisa in due parti, quest’immagine, che a tal proposito si ricollega alla prima proposta in catalogo, traccia il passo, in un unico scatto, del labile confine tra vero e visionarietà, tra realtà e astrazione. I dettagli paesaggistici nell’atmosfera lattiginosa del secondo piano si contrappongono alle zolle di terra del primo piano, a loro volta protagoniste assolute in 19 Mansuè – Febbraio 2013, dove il principio di astrazione suggerisce lo slittamento dal dettaglio del terreno a un visionario paesaggio aereo.
La temporalità intesa come durata, che affiora in molte immagini, sottolinea l’intenzione tipica del linguaggio fotografico: fermare l’attimo e tradurlo in permanenza. Ma è proprio il sottile limite sviluppato da Galifi tra fenomenologia della natura e astrazione segnica a riconsegnare al paesaggio la sua accezione di tempo mutante, in cui il senso dell’essere si costruisce in divenire.

Sabrina Zannier